Gear Talks

Tutto in 800 metri: la storia dell’unico Gp di Marco Apicella

L’incredibile storia dietro una delle carriere più brevi della storia della F1 e il perchè, a volte, l’importante è partecipare…

La nostra storia ha inizio nell’Inverno tra il 1992 e il 1993, in Inghilterra, precisamente vicino al tracciato di Silverstone, dove ha sede la Jordan GP. La stagione appena conclusa si è rivelata piuttosto dura per la piccola squadra fondata dal vulcanico Eddie Jordan.

Anzi, un vero incubo, se paragonata alla stagione del debutto, il 1991, in cui il team irlandese aveva stupito tutto il mondo della F1 grazie alla bellissima vettura progettata da Gary Anderson, la 191, che motorizzata dal sempre affidabile V8 Ford-Cosworth aveva chiuso al quinto posto nel costruttori.

Ma la F1 così come da’, altrettanto velocemente toglie, soprattutto se si prendono decisioni sbagliate alla voce “motore”. Infatti, alla fine del 1991 Eddie Jordan aveva deciso, con una delle sue leggendarie decisioni impulsive di sbarazzarsi dei V8 Ford in favore dei V12 Yamaha. Il motivo? Piuttosto semplice: soldi.

Ford pretendeva di essere pagata per i suoi motori versione clienti, mentre la Yamaha offriva i propri propulsori gratuitamente. Jordan, da sempre un uomo sensibile al lato economico della faccenda , non ci pensò su due volte e si fiondò a firmare un contratto con i giapponesi.

Mai scelta fu più infelice. Scegliendo di abbandonare gli affidabili V8 anglo-americani per l’inaffidabile motore made in Japan, Eddie aveva condannato il proprio team a un anno di calvario.

Nonostante potesse avvalersi dei servigi di piloti veloci ed esperti quali il brasiliano Gugelmin e l’italiano Modena il 1992 del team irlandese fu costellato da ritiri, frustrazioni, tensioni tra management e piloti e persino una manciata di mancate qualificazioni. Morale della favola? Tredicesimo posto in classifica finale con un solo punto, conquistato da Modena nel GP conclusivo del mondiale in Australia.

La disastrosa Jordan Yamaha 192, Motorsport.com

Insomma, dalle stelle alle stalle in meno di un anno. Jordan comprese che era necessario un cambio di rotta per evitare che la nave affondasse definitivamente. Bisognava prendere provvedimenti, che non tardarono ad arrivare. In un colpo solo il team manager irlandese decise di sbarazzarsi dei suoi piloti e dei disastrosi V12 Yamaha.

Per il 1993 era necessario un nuovo inizio e soprattutto c’era bisogno di nuovi motori. Tornare in ginocchio dalla Ford? No, fuori discussione.  Bisognava trovare una soluzione alternativa che coniugasse costi, potenza e affidabilità.

E fu allora che al progettista del team, il già citato Gary Anderson, venne l’illuminazione capace di tirare fuori dai guai il suo vulcanico boss. La soluzione ai problemi del team risiedeva in un amico di lunga data di Anderson: Brian Hart, geniale motorista britannico e fondatore della Hart Engineering. Ragione sociale della società? Easy: progettazione e costruzione di motori da corsa, nello specifico soprattutto di un nuovo V10 su cui Jordan mise subito gli occhi.

Le parti in causa raggiunsero velocemente l’accordo per la fornitura dei propulsori al team irlandese. Trovato il motore, adesso bisognava trovare i piloti. La scelta ricadde su un giovane e promettente pilota brasiliano che tanto bene aveva fatto nella F3 britannica l’anno prima: Rubens Barrichello e sull’italiano Ivan Capelli, in cerca di riscatto dopo una stagione da incubo in Ferrari.

Fin dalle prime gare il motore Hart si confermò una scelta azzeccata dimostrandosi da subito solido, affidabile e piuttosto competitivo. Basti pensare che al GP di Donington Barrichello si era trovato in lotta per il podio con la Williams di Prost, prima di essere costretto al ritiro perchè rimasto senza benzina.

Insomma, la competitività quantomeno era stata ritrovata, ben presto sarebbero arrivati anche i punti. Il problema era che solo Rubinho sembrava capace di cavare qualcosa di buono dalla 193, mentre i suoi compagni di squadra apparivano tutti in profonda difficoltà.

Ivan Capelli al volante della Jordan 193 Hart, Motorsport.Com

Sì. Non è un errore di stampa. Avete letto bene: compagni. Infatti il secondo sedile della Jordan nel 1993 era stato piuttosto instabile con continui cambi di piloti dovuti a scarso rendimento o, il più delle volte al caratteraccio del buon vecchio Eddie.

Capelli era stato appiedato dopo due gare sottotono, condite dalla mancata qualificazione in Brasile e da un furibondo litigio col vulcanico team principal irlandese che aveva accusato l’italiano di essere un “bollito” e con Capelli che aveva accusato Jordan di essere interessato solo ai soldi e non ai propri piloti. Deluso e disgustato, Capelli optò per andarsene non solo dal team, ma dalla F1 in generale, ritirandosi.

Al suo posto venne chiamato l’esperto Thierry Boutsen, vincitore di 3 GP in passato, ma da anni in fase calante secondo molti. Effettivamente, nemmeno il belga aveva ottenuto risultati rilevanti e dopo 10 gare incolore, in cui era stato comprensibilmente battuto da Barrichello era stato appiedato pure lui.

Alla vigilia del tredicesimo GP stagionale, quello di Italia presso l’autodromo di Monza, Jordan si ritrovò nuovamente col problema di trovare un pilota che guidasse una delle sue vetture. A chi affidare la seconda Jordan per la gara nel tempio della velocità?

Jordan pensò subito che la soluzione migliore, anche per una questione di visibilità e di immagine, fosse quella di mettere sotto contratto un pilota italiano. Quindi si rivolse a Emanuele Naspetti, il quale aveva disputato una manciata di gare nel 1992 con la moribonda March, e che nel 1993 aveva svolto qualche test proprio per il team irlandese. Ma il pilota marchigiano, un po’ a sorpresa, rifiutò l’offerta citando la concomitanza con altri impegni e soprattutto lo scarso tempo a sua disposizione per prepararsi adeguatamente alla gara.

Thierry Boutsen protagonista di una parentesi incolore come pilota Jordan. Lat Photographic

Che fare a questo punto? A una settimana esatta dalla gara mancava ancora il secondo pilota. A chi offrire il sedile? Ed improvvisamente nella testa di Eddie Jordan balenò un nome, proveniente dal suo passato come team manager in F3000: Marco Apicella.

Apicella, pilota bolognese classe 1965, era un nome abbastanza conosciuto tra gli addetti ai lavori, soprattutto delle serie minori. Tra il 1984 e il 1991 si era messo in mostra tra F3 italiana e F3000, segnalandosi come pilota veloce ma sfortunato. Dal 1992 il buon Marco si era trasferito in Giappone, conscio che la tanto attesa promozione in F1 non sarebbe mai arrivata, diventando uno dei protagonisti, profumatamente pagati, delle locali serie motoristiche: Formula Nippon e Super GT, mettendosi in mostra in parecchie gare.

Memore dei suoi exploit in F3000 e documentatosi sui suoi risultati nella terra del Sol Levante, Jordan si convinse che Apicella fosse l’uomo che stava cercando e lo contattò offrendogli un volante per Monza.

Apicella, dal canto suo, aveva da poco concluso una gara al Fuji quando ricevette la telefonata: accettò immediatamente e si mise sul primo aereo disponibile conscio che l’occasione della sua vita era finalmente giunta.

Giunto all’autodromo di giovedì ed espletate tutte le formalità del caso, Marco si preparò per il suo debutto ufficiale nel dorato mondo dei Gran Premi. Fin dalle prime prove libere il bolognese si mise in mostra per la guida pulita, per le indicazioni precise e puntuali ai tecnici e per l’abilità di abbassare giro dopo giro i propri tempi avvicinandosi sempre di più a quelli di Barrichello.

Le buone sensazioni del venerdì vennero confermate al sabato, con Marco capace di qualificarsi per la gara con un rispettabile 23esimo tempo a meno di 5 decimi dal suo compagno di squadra. E finalmente giunse la domenica. Il culmine di ogni fine-settimana di gara, quando le congetture dei giorni di prove vengono messe da parte per lasciare spazio all’impietoso verdetto della pista.

Marco Apicella al volante della Jordan a Monza
foto: Twitter, Grand Prix Diary

La domenica, fin dagli albori del Mondiale, è il giorno designato per eleggere vincitori e vinti, e Marco Apicella, a quasi 28 anni, si sta preparando sulla griglia di Monza a prendere il via al suo primo GP di Formula 1. Me lo immagino, proprio ora mentre scrivo, come se ce lo avessi di fronte a me. Seduto all’interno della sua Jordan-Hart mentre osserva dalla 23esima posizione in griglia le 22 macchine di fronte a sè, l’immenso rettilineo principale e le tribune gremite di pubblico.

Provo a immaginare ciò che possa aver provato nei concitati momenti pre-gara quando i meccanici si ritirano e ti lasciano da solo con i tuoi pensieri e con l’adrenalina che inizia ad andare in circolo. Il sogno di una intera vita, finalmente coronato. Il debutto in F1 e sulla pista più importante per qualsiasi pilota italiano: Monza.

Probabilmente in quegli interminabili momenti che precedono lo spegnimento delle luci e la partenza della gara Apicella pensò: “Ok, Marco ci siamo. L’occasione aspettata per tutta la carriera è finalmente giunta. Mantieni la calma, guida pulito, mantieni un ritmo costante, tieniti lontano dai guai, non tirare il collo alla vettura e soprattutto non cercare di fare l’eroe in curva 1. Hai una intera gara per recuperare posizioni, porta la macchina al traguardo e cerca di ottenere un buon risultato”.

Probabilmente il bolognese pensò effettivamente a tutte queste cose, ma non potremo mai saperlo, visto che nessuno sa con esattezza quali pensieri frullino nelle teste dei piloti poco prima della partenza di un GP. E finalmente giunge il momento tanto atteso: i semafori si spengono e le 26 vetture in griglia si lanciano lungo il rettilineo dei box verso curva 1.

Marco è partito bene, ha già recuperato un paio di posizioni e si prepara ad affrontare la impegnativa prima curva. Peccato che non la affrontò mai. Proprio mentre stava impostando la frenata, improvvisamente negli specchietti vide un’ombra nera dietro di sè: la Sauber-Ilmor di J.J. Lehto, il quale, dopo una partenza infelice, stava cercando di recuperare posizioni.

Il finlandese, forse spinto dalla troppa foga, sbagliò i tempi della staccata e innescò una carambola che coinvolse prima la Footwork di Suzuki, poi la Larrousse di Alliot e infine le due Jordan di Barrichello e del nostro sfortunato eroe.

La gara di Marco è finita lì, dopo 800 metri. Non è riuscito nemmeno a completare un giro. Il bolognese scende dalla propria vettura e mestamente rientra ai box dove comunque riceve i complimenti di tutto il team. Ha dimostrato di meritare la F1. La stoffa c’è, ora servirebbe un ingaggio a tempo pieno.

L’incidente al primo giro GP Italia 1993, F1.com

E Jordan effettivamente gli offrì il sedile per le gare successive. Ma Marco declinò. E’ un pilota navigato ormai, e sa perfettamente che Jordan non offre nessuna garanzia sul lungo periodo. Lui preferisce tornare in Giappone dove può essere un professionista lautamente pagato. Il sogno chiamato F1, così come era iniziato, era già giunto al termine. Sayonara.

La scelta di Apicella di tornare nella terra del Sol Levante, alla fine dei conti pagò. Nel 1994 si laureò campione di Formula Nippon ottenendo finalmente quella vittoria in un campionato che aveva inseguito per tutta la sua carriera.

In realtà il buon Marco sfiorò nuovamente la F1 nel 1996, quando condusse qualche test al volante della F105, la monoposto costruita dalla casa giapponese Dome, in vista di un eventuale debutto in F1 ,previsto per il 1997, ma mai concretizzatosi.

Dopo il cameo di Apicella a Monza, la girandola di piloti in casa Jordan continuò. E dopo l’apparizione di Naspetti in Portogallo, per le ultime due gare di quel movimentato mondiale 1993, da disputarsi a Suzuka ed Adelaide, il caro vecchio Eddie decise di affidarsi ad un altro pilota proveniente dalla Formula Nippon. Un pilota che, proprio come Apicella, era giunto in Giappone in cerca di fortuna e che si era messo in luce già parecchie volte grazie al suo talento. Il suo nome? Edmund “EddieIrvine, veloce e strafottente pilota nordirlandese, destinato a scrivere pagine importanti nella storia della F1. Ma questa, cari amici, sarà una storia per un’altra volta…

 

Bartolomeo Cianciolo

 

 

 

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