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Tutte le strade portano a Jeddah. Cosa si nasconde dietro il GP in Arabia Saudita

Che cosa c’è davvero dietro l’aggiunta dell’Arabia Saudita al calendario del mondiale? Avidità od opportunità? Considerazioni su un GP discusso e discutibile

Tanto tuonò che piovve. Dopo mesi di indiscrezioni, rumors e voci di corridoio è arrivata l’ufficialità: dal 2021 l’Arabia Saudita entrerà a far parte del calendario del mondiale di Formula 1, con una gara che si disputerà, Covid permettendo, sulle strade della città di Jeddah. Come prevedibile la notizia ha provocato un vero e proprio terremoto mediatico, le cui scosse hanno avviato interminabili polemiche e discussioni tra giornalisti, addetti ai lavori e fans in merito alla scelta di Liberty Media.

Perchè una notizia del genere ha provocato una tale confusione? Beh, i motivi sono diversi e di varia natura, molti dei quali pienamente condivisibili. Ma procediamo con ordine.

Da un punto di vista meramente sportivo, l’inclusione di Jeddah in calendario è stata accolta tiepidamente, per usare un eufemismo, dai fans perchè ai loro occhi è semplicemente l’ennesimo circuito cittadino disputato in un paese senza tradizione motoristica, ma dotato di ingenti risorse finanziarie.

Sono critiche mal riposte? No, assolutamente no. A tutti noi piacerebbe vedere in pianta stabile in calendario Imola o Portimao, perchè sono piste difficili, “vecchia scuola”, con interessanti sfide a livello tecnico e di guida. Ma, sfortunatamente bisogna scontrarsi con la dura realtà e con il secondo punto di questa analisi: il dato economico.

La regione Emilia-Romagna e quella dell’Algarve non avranno mai a disposizione i mezzi finanziari di cui dispone l’Arabia Saudita. E’ un dato di fatto. Il Paese mediorientale può iper-valutare il proprio slot nel calendario pagandolo anche 30/40 milioni all’anno, Imola e Portimao no.

Un render del futuro tracciato di Jeddah, F1.Com

Siete delusi da tutto questo cinismo? Beh, è la semplice realtà dei fatti. La F1, prima che essere uno sport, è soprattutto un business. E, come ogni attività commerciale, deve essere sostenibile su un piano finanziario.

Perciò secondo voi, cosa si sceglierà? Un calendario costituito da circuiti ricchi di fascino e storia ma che possono pagarti 10/20 milioni l’anno o uno pieno zeppo di circuiti costruiti in paesi sprovvisti di storia motoristica ma dotati di tantissimo denaro sonante in grado di offrire il triplo rispetto ai circuiti europei?

Ovviamente nonostante gli sforzi indefessi di Ecclestone prima e di Carey ora, il calendario del mondiale mantiene ancora una propria dignità bilanciandosi quasi in modo equo tra le piste tradizionali e quelle nuove, ma da vent’anni a questa parte la tendenza è stata quella di allontanarsi dal vecchio continente per favorire l’ingresso di paesi esotici ma molto ricchi.

E’ ingiusto? Assolutamente sì. Ma, sfortunatamente, viviamo in una società capitalistica in cui tutto ciò che conta è il profitto e ciò che non lo produce è sacrificabile. Visto che la rivoluzione del proletariato non sembra essere all’orizzonte, abituiamoci a convivere con questa mentalità: il profitto vince sui sentimentalismi.

Come sopra detto, la Formula 1 è soprattutto un business e deve garantire la propria stabilità finanziaria. In parole povere, alla fine di ogni anno, come ogni altra società, deve fare quadrare i propri conti.

E, considerando che qualche giorno fa Liberty Media ha annunciato che il Circus chiuderà il bilancio di quest’anno con una perdita secca di 100 milioni, improvvisamente l’idea di una gara a Jeddah non sembra più tanto peregrina.

Ah, mi raccomando, non gasatevi neanche troppo per le dichiarazioni di Toto Wolff (Team Principal Mercedes, nda) quando dice: “La F1 dovrebbe correre su piste vere e non in delle specie di parcheggi per centri commerciali“.

Come dite? Mi state chiedendo il perchè non dovreste dedicare a Toto 92 minuti di applausi? Per il semplice motivo che tra un anno l’indomito Wolff sarà, insieme a tutti i suoi colleghi di pari grado, comprensibilmente entusiasta di correre a Jeddah e, come per magia, il parcheggio del centro commerciale sarà diventata una pista molto tecnica e affascinante.

Il motivo di questo cambiamento di visione ? No, nessuna modifica  al layout previsto per il tracciato saudita, ma semplici PR. Infatti una piccola quota di team quali Mercedes, Ferrari e McLaren appartiene a fondi di investimenti quali Aabar o Mubadala dietro cui si celano i ricchi stati mediorientali che hanno costruito le proprie fortune sul petrolio e, che ogni anno, contribuiscono generosamente al budget dei suddetti team.

Ergo, quando sei ospite dei tuoi generosi finanziatori dici che la pista è una cattedrale nel deserto oppure che è avveniristica e che hai sempre sognato visitare Jeddah?
Ovviamente, la risposta è la seconda per ragioni di PR. Delusi? Beh, si tratta pur sempre di paracul… ehm, real politik.

Uno scorcio di Jeddah, Motorsport.Com

L’Arabia Saudita e i diritti umani

Come avete potuto notare in questo articolo ho usato un tono spesso ironico , ma adesso lo voglio mettere da parte per affrontare seriamente la vera criticità riguardante l’ingresso dell’Arabia Saudita nel calendario: cioè il rispetto dei diritti umani.

Non giriamoci intorno. In Arabia Saudita il rispetto dei diritti umani non è in cima alla lista delle priorità di re Salman e dei suoi familiari. Gli oppositori al regime vengono torturati e incarcerati, o peggio, come il caso Kashoggi ci ha tristemente insegnato, eliminati fisicamente.

Ogni forma di dissenso e protesta è soffocata dagli efficienti servizi di sicurezza sauditi. Chiunque osi criticare il sovrano o il principe ereditario Mohammed sa a cosa va incontro… Kashoggi docet.

La libertà di stampa e di pensiero sono fuori discussione.
Il diritto penale è ancora regolato dalla Sharia (norme di legge basate su disposizione del Corano, nda) e da qualche timida normativa laica.

La pena di morte, quasi sempre per decapitazione, è tutt’ora vigente con centinaia di esecuzioni all’anno. L’omosessualità è un reato severamente punito.

La condizione delle donne è lievemente migliorata. Infatti, su impulso del principe Mohammed, dal 2015 è concesso alle saudite di prendere la patente e guidare e di partecipare alle elezioni locali votando e addirittura candidandosi. Ovviamente permane la  loro condizione di totale subalternità agli uomini, siano essi mariti, padri o fratelli. Ma, in “compenso”, da qualche anno le donne possono assistere alle partite di calcio e ad altri eventi sportivi , rigorosamente in settori appositi e separate dagli uomini.

Il quadro generale, quindi, non appare dei più incoraggianti. Eppure, da anni, eventi sportivi di rilievo internazionale vengono disputati in massa sul territorio saudita. Basti pensare alla Supercoppa Italiana di calcio che ad anni alterni si disputa nella città di Riyad, capitale dell’Arabia Saudita, o alla Formula E che dal 2018 disputa gare sul tracciato di Diriyah. E , ovviamente, dal prossimo anno, anche la Formula 1.

Perchè l’Arabia Saudita investe tutte queste risorse in eventi sportivi di rilievo?

La risposta ce la fornisce Amnesty International. La famosa ONG impegnata da anni nella tutela dei diritti umani ha denunciato il fatto di come l’Arabia Saudita da anni cerchi di “ripulire” la propria immagine pubblica agli occhi del mondo ospitando eventi sportivi e investendo ingenti risorse nel finanziamento di squadre europee, soprattutto di calcio, tramite il proprio fondo di investimenti statale.

L’ultimo caso, in ordine di tempo, è stato il fallito tentativo  di acquisto del Newcastle United, squadra della Premier League, da parte di un fondo riconducibile alla Famiglia Reale saudita. Tentativo bloccato sul nascere dalla Football Association (la federcalcio inglese, nda ) su pressioni sempre di Amnesty.

E’ una storia vecchia come il mondo: panem et circensem. Sei un regime discusso? Ospita un evento sportivo e la tua percezione agli occhi del mondo migliorerà di conseguenza.

Non mi credete? Pensate alle Olimpiadi di Pechino nel 2008 o al Mondiale di calcio in Russia nel 2018. Ci sono state polemiche? Ovvio. Ci sono state defezioni? Certo che no. Anzi, sono tutti accorsi in massa pronti a salire sul carro del vincitore e a spendere parole al miele per i discussi Paesi ospitanti. Lo stesso accadrà con l’arrivo della F1 in Arabia Saudita : ci saranno polemiche e indignazione social come sempre, ma la gara si disputerà come da programma e, alla fine, saranno tutti felici e contenti.

Sinceramente mi fanno sorridere le affermazioni di molti fan su Twitter che pontificano su come sia uno scandalo che si disputi una gara in un paese che calpesta così palesemente i diritti umani e che minacciano di boicottare il GP in massa per protesta.

Non fraintendetemi. Anche io sono scandalizzato e quantomeno perplesso da questa scelta di offrire una vetrina internazionale quale la possibilità di ospitare un GP  di F1 a un paese come l’Arabia Saudita.

Ma, allo stesso tempo, conosco i fans della F1. Tra un anno il GP a Jeddah lo guarderemo tutti in TV come se nulla fosse.
Come faccio ad esserne certo? Perchè in passato la F1 ha corso nella Spagna Franchista o nel Sud Africa della segregazione razziale.

Perchè sono anni che guardiamo le gare in Bahrein, Cina, Russia e Ungheria senza battere ciglio, pur sapendo esattamente cosa succede in quei paesi ogni giorno, pur sapendo delle violazioni sistematiche dei diritti umani che vengono perpetuate.

Kyalamy, 1985: la F1 corre nel Sud Africa segregazionista, Motorsport Images

Sarebbe un po’ da ipocriti fare una eccezione alla regola solo perchè sui social essere indignati fa tendenza. La lotta per la tutela dei diritti umani si deve portare avanti ogni giorno, non solo quando è conveniente. Una lezione che forse nè il mondo della F1 nè Liberty Media sembrerebbero aver compreso appieno.

#WeRaceAsOne ?

La dimostrazione di ciò proviene dall’iniziativa promossa quest’anno dal Circus e dai suoi proprietari statunitensi: #WeRaceAsOne. La campagna, ufficialmente, si pone l’obiettivo di combattere il razzismo e le disuguaglianze che ancora oggi esistono nel mondo delle corse, con l’obiettivo di creare una Formula 1 più giusta ed equa, ma soprattutto capace di dare il proprio contributo a quelle richieste di cambiamento provenienti da tutto il mondo, soprattutto da movimenti come #BlackLivesMatter.

E inizialmente abbiamo visto piloti che si sono impegnati su vari temi e hanno cercato di dare il proprio contributo. Basti pensare a Lewis Hamilton, in prima linea nella campagna #EndRacism e da anni interessato al cambiamento climatico, o a Daniel Ricciardo che si sta dedicando alle campagne di cura e prevenzione della depressione.

Insomma, per un bellissimo momento, ho davvero creduto che la F1 fosse uscita dalla propria bolla e volesse dare un proprio contributo nel realizzare un mondo migliore. Poi, però, come sempre, mi sono dovuto ricredere. Mentre eravamo tutti impegnati a complimentarci per la bella iniziativa, dietro le quinte si consumava la vera tragedia.

Mentre Liberty Media e i suoi uomini si occupavano di attaccare adesivi arcobaleno con #WeRaceAsOne su tutte le monoposto e tutti i circuiti in calendario, nel resto del tempo le stesse persone concludevano contratti con lo stato saudita in vista dell’organizzazione di un GP a Jeddah e soprattutto un lucrativo contratto di sponsorizzazione con Aramco.

La Saudi Aramco è una azienda di stato saudita coinvolta principalmente nel campo petrolifero e delle costruzioni, balzata più volte agli onori delle cronache negli ultimi anni per il suo totale disinteresse per le politiche anti-inquinamento. Secondo alcuni dati, è l’azienda che ha prodotto  più inquinamento negli ultimi 70 anni.

Il logo della campagna #WeRaceAsOne, F1.Com

Ora, avendo un quadro d’insieme, avrete compreso perchè #WeRaceAsOne ha già fallito.
La F1 e Liberty Media come possono parlare di diritti, uguaglianza e temi ambientali quando la quasi totalità dei GP in calendario avrà come title sponsor Aramco? La F1 vuole lanciare un segnale forte di cambiamento? Stracci quei contratti e ponga come condizione per l’ingresso di un Paese in calendario il rispetto dei diritti umani.

Ma sappiamo già che non accadrà. Resterà tutto così come è, gare negli Stati irrispettosi dei diritti umani comprese. Perchè lo status quo è bello, soprattutto se ci attacchi un adesivo arcobaleno sopra.

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